Stiamo lavorando da tre anni sul libro IV della Ordinatio del B. Giovanni Duns Scoto, dove egli espone la dottrina sui sacramenti.
Abbiamo finora pubblicato due volumi sull’argomento, XI e XII, e precisamente sui sacramenti in generale, e sul battesimo, cresima ed eucaristia in particolare.
Attualmente siamo impegnati nella elaborazione del vol. XIII, in cui viene esposta la dottrina sulla penitenza e sull’unzione degli infermi (o estrema unzione).
La dottrina di Scoto si inserisce nelle questioni teologiche, morali e giuridiche, in particolare sull’origine diretta o indiretta di questi sacramenti da Cristo e sulla loro essenza.

E’ noto che la dottrina sulla confessione, nei primi secoli della Chiesa, non era così chiara come ad esempio quella sul battesimo e sul1’eucaristia.
Con l’approfondimento, la prassi e gli insegnamenti della Chiesa, pian piano la confessione si arricchisce nella cognizione della sua essenza, e quindi sempre più chiaramente viene compresa e praticata.

Nella sua essenza, viene compreso l’obbligo di farla, che deriva dalle parole di Gesù, quando, nel giorno della resurrezione, apparendo ai discepoli, disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati, saranno rimessi; a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi” (Gv 20,23); e deriva simultaneamente dal precetto “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6,5; Lc 10,27), e “Amerai il tuo prossimo come te stesso” (Lev 19,18; Lc 10,27) (Ordinatio IV d. 17 n. 48); a cui seguono sempre più precise spiegazioni e disposizioni della Chiesa, che da Cristo ha ricevuto il mandato di guidare i fedeli alla salvezza, fino ad arrivare al decreto del Concilio Lateranense IV (anno 1215), sotto Innocenzo III, sulla confessione annuale e sulla comunione almeno a Pasqua (ES 812; Ordinatio IV d. 17 n. 34).

Molti, in particolare S. Agostino, si erano premurati di esortare i fedeli a confessare i loro peccati, a non rimandare la confessione alla tarda età o addirittura al punto di morte, col pericolo di non averne più il tempo o di non avere più la mente lucida. Proprio S. Agostino, per indurre i fedeli a confessarsi al più presto, dopo aver peccato, usa un’espressione molto forte, incisiva ed efficace in questo senso: “Fai penitenza mentre sei ancora sano; se fai così, tu hai compiuto ciò nel tempo in cui ancora potevi peccare. Se invece vorrai pentirti quando non potrai più peccare, saranno i peccati ad abbandonarti, non tu i peccati” (August., Sermo 393, De poenitentibus [PL 39, 1715]; Ordinatio IV d. 20 n. 5).

Che cosa confessare?

Almeno tutti i peccati mortali di cui si ha cognizione o memoria, dopo un serio esame di coscienza in rapporto ai comandamenti del Signore e ai precetti della carità verso Dio e verso il prossimo.
Si devono confessare anche le circostanze aggravanti (come ad esempio rapporti con donna libera o sposata; furti di cose altrui, o furti di cose sacre compiuti in luoghi sacri; anche la frequenza e la ripetitività è circostanza aggravante del peccato).

Scoto si sofferma pure su quelle che sono condizioni da parte del penitente per una buona confessione, e quelli che sono i doveri del sacerdote che assolve.
Effetti obbligatori della confessione sono per il penitente: restituzione delle cose rubate, se possibile; restituzione dell’onore tolto; riparazione dei danni causati; perdono da concedere a chi è stato offeso o odiato; richiesta di scusa a chi è stato offeso; penitenza, ordinata dal confessore, da eseguire…

Scoto esamina a lungo le tre parti componenti la ‘penitenza’, ossia: la contrizione (o almeno l’attrizione), la confessione, la soddisfazione.
Senza la contrizione, ossia il dispiacere di aver commesso il peccato, e quindi di aver offeso Dio trasgredendo la sua Legge, non vi può essere perdono. Il sacerdote assolve con l’assistenza di Dio, il quale ha stabilito come una specie di patto con cui si impegna a cooperare con la sua Chiesa nel concedere l’effetto significato da ogni singolo sacramento (vol. XI, p. 112), e quindi nel caso specifico a liberare l’anima dal peccato quando il sacerdote assolve il penitente (d. 14 n. 195).

II sacramento della penitenza, come tale, è l’assoluzione di una persona pentita, fatta con parole precise, con l’intenzione debita, pronunciate dal sacerdote che per istituzione divina ne ha la giurisdizione, che significano efficacemente l’assoluzione dell’anima dal peccato (d. 14 n. 195). La confessione è indispensabile, cioè la rivelazione dei peccati commessi, in modo che il sacerdote sappia da che cosa assolve. La confessione deve essere integrale, fatta ad un unico sacerdote, non spartita tra due o più sacerdoti.

La soddisfazione, la “satisfactio”, imposta dal confessore o da lui approvata è un’opera laboriosa, cioè faticosa, che magari provoca un po’ di sofferenza, deve cioè essere una “pena”, volontariamente accettata per punire il proprio peccato e per placare l’offesa recata a Dio: può essere il digiuno, la preghiera, o azioni volontariamente decise, oppure è una pena tollerata (ad esempio una malattia).
I doveri del sacerdote sono: mai rivelare i peccati manifestatigli in confessione (neppure sotto minaccia di morte).
Tanti altri particolari, riguardanti il penitente e il sacerdote che assolve, vengono dettagliatamente elencati e spiegati da Scoto.

Per quanto riguarda il sacramento dell’unzione degli infermi. Duns Scoto non si sofferma a lungo: esso infatti risulta chiaro dalle parole di S. Giacomo nella sua lettera canonica, al cap. 5, 14-15. Scoto ne da una definizione o una descrizione esaustiva, che poi spiega dettagliatamente.
Si sofferma anche sulla sua istituzione, che certamente proviene da Cristo, sebbene sia stata enunciata e raccomandata da Giacomo.

Metodo di lavoro

Per quanto riguarda l’esposizione, Scoto si inserisce nel contesto del tempo in cui scrive: esamina le singole questioni alla luce dei Padri è dei dottori del medioevo. Cita molte opinioni, che poi esamina, corregge, rifiuta o accoglie; o finisce col fornire la sua posizione.
Trattandosi di sacramenti regolati da norme precise della Chiesa, sono frequenti le citazioni bibliche e giuridiche (come il Decreto di Graziano, le Decretali, le glosse giuridiche, o addirittura le opere giuridiche civili, ossia il Codex Iuris Civilis di Giustiniano).

Il testo di Scoto ci è stato trasmesso dal manoscritto di Assisi con grande accuratezza, anche perché il manoscritto da cui proviene, era stato rivisto con l’originale di Scoto. Gli altri manoscritti invece presentano frequenti varianti, dovute alle seguenti cause:

1) Lettura errata delle abbreviazioni.
2) Cambiamenti arbitrari di parole sinonime (licet-quamvis, enim-quia, nec-neque, aut-vel, sive-seu, ut-sicut, ecc).
3) Cambiamento volontario di parole e di frasi.
4) Inversione di parole (prima o dopo).
5) Omissioni per homoioteleuton (ossia per uguale terminazione di parole).

Il testo da noi restituito è corredato, come sempre, dall’esatta indicazione delle fonti, secondo le edizioni critiche più accreditate e moderne; da nostre note o spiegazioni di parole, frasi, non facilmente comprensibili.
Ogni questione è corredata di titoli e sottotitoli così come sono indicati o accennati dallo stesso Scoto o come risultano dall’ordine della trattazione.
Ogni argomento è presentato come a sé stante, cioè un periodo a sé anche se è di mezza riga. Il lettore cioè deve vedere subito dove finisce un argomento e dove inizia un altro.
I testi di ogni distinzione sono numerati progressivamente da numeri marginali ben visibili che facilitano eventuali citazioni, di passi.
II volume viene naturalmente corredato di Indici, come siamo soliti dare.

* [Conferenza tenuta da P. Barnaba Hechich l’8 novembre 2011]